Quando il corpo si congela per “sopravvivere” a un pericolo
“Dottoressa, non riesco proprio a capacitarmi, una cosa del genere non mi è mai successa, me ne vergogno moltissimo”.
Michele mi racconta che, mentre lui e la sua collega passeggiavano tranquillamente in un parco durante la pausa pranzo, un cane, senza apparente motivo, li ha aggrediti. Michele ha da sempre paura dei cani, e in quel frangente, terrorizzato, si è paralizzato, non riuscendo a reagire. Non è stato capace di muovere un dito nemmeno per difendere la collega, cosa che lo ha sconvolto ancora di più dell’attacco subito.
“Non riuscivo proprio a fare alcun movimento, era come se fossi diventato di marmo. Avrei voluto gridare, fare qualcosa per proteggerci, allontanare quell’animale, ma era come se il mio corpo fosse impietrito…che figura…non potrò mai perdonarmelo”.
La risposta di Michele è una delle diverse possibilità di reazione che ha il nostro organismo a fronte di una minaccia. La prima strategia che attiviamo è quello del supporto sociale: se siamo in pericolo spesso ci viene istintivo chiedere aiuto agli altri. Ma a volte questo sistema di risposta fallisce: o perché non ci sono altre persone cui chiedere sostegno, o perché le persone presenti, per qualche ragione, non vengono percepite come protettive. È quest’ultimo il caso di Michele, che in compagnia di una ragazza minuta e impaurita, in assenza di altri nelle immediate vicinanze, si è sentito in balìa degli eventi.
La seconda possibilità che ha il nostro organismo a fronte di un pericolo è quella di attaccare (se valutiamo di poter avere la meglio sulla minaccia) o di fuggire (se invece riteniamo che lo scontro non deporrebbe a nostro favore).
Ma quando, per svariati motivi, percepiamo che la minaccia non può essere evitata né affrontata, allora il nostro corpo ha un’estrema strategia di risposta: quella di “fingersi morto”, di congelarsi (in termine tecnico chiama freezing). Proprio come fanno alcuni animali quando vengono predati. La strategia della morte apparente allontana il predatore, non interessato a cibarsi di un animale già privo di vita (e quindi potenzialmente non sano). È ciò che è successo a Michele, che si è trovato nell’impossibilità, pur desiderandolo, di muovere un solo muscolo.
Ma come è possibile che un uomo grande e grosso come lui abbia a tal punto paura di un cane, per giunta di piccola taglia, come quello che li ha aggrediti?
La risposta sta nella memoria traumatica di Michele: la sua fobia per i cani deriva proprio da un episodio accadutogli da bambino, attorno ai 4 anni, quando un pastore tedesco lo rincorse e, forse volendo solo giocare con lui, lo atterrò puntandogli il muso contro la gola. Allora Michele fu sopraffatto dal terrore. Nella sua memoria si impressero le sensazioni di non avere scampo e di non poter in alcun modo fronteggiare quell’animale.
La sua mente e il suo corpo, a fronte dell’attacco del cane al parco, hanno reagito come in quell’occasione, come se Michele avesse ancora 4 anni.
“Ora capisco che non ho avuto una reazione poi così anormale…e onestamente mi sento molto meglio…credevo di essere solo uno smidollato”.
Il lavoro sulla fobia di Michele ha radici molto lontane, ma il suo senso di efficacia personale è recuperabile nel presente. La consapevolezza di aver avuto una risposta giustificata e non “codarda” rappresenta il primo passo verso il recupero di una maggiore resilienza.